L’uomo è relazione: Habito incontra Ottorino Gaburri
Di qualsiasi cosa si voglia parlare oggi, è indispensabile ricominciare da domande radicali, perché radicale è il tempo che si prospetta di fronte a noi.
Possiamo parlare di legno, di tecniche, di forma, ma se non spieghiamo quale è la nostra visione della vita, in cosa crediamo, stiamo omettendo una parte decisiva per una corretta comprensione della nostra proposta.
Per farvi comprendere cosa significa legno, da dove arriva la tecnica, il perché di una tecnica e non un’altra, devo farvi notare alcuni passaggi che in qualche modo ha fatto anche Giuseppe Rivadossi per arrivare alle sue opere. In altre parole, devo tentare di introdurvi nell’orizzonte creativo dal quale sono nate queste opere.
Uno scritto del poeta Marco Guzzi ci aiuta ad introdurci nel tema:
“L’anima umana ha bisogno più d’ogni altra cosa
di essere radicata in molteplici ambienti naturali
e di comunicare con l’universo per loro tramite.”
La nostra anima ha bisogno di riferimenti e di riconoscerli come validi, la nostra casa è uno di questi, il luogo in cui viviamo, che è anche la nostra cultura, tutto è ambiente.
Tutto è traccia di un passaggio, tutto indica una strada, le mie orme suggeriscono agli altri una direzione, e viceversa: in questo senso tutto parla, e quindi tutto è relazione.
L’uomo è relazione, ogni suo gesto è linguaggio perché coinvolge, che ne siate consapevoli o meno, tutte le sue relazioni, fino alla relazione, niente popò di meno che, con l’universo stesso: l’oceano nel quale viviamo è una fitta rete di relazioni.
Per parlare oggi di architettura, quindi del nostro lavoro, risulta necessario tornare ad interrogarsi sul senso che può avere il nostro essere qui, su questo pianeta, abitarlo, vivere insieme agli altri e alla madre terra: significa cioè interrogarsi sulle nostre relazioni vitali, significa approfondire la nostra consapevolezza di che cosa aiuta la vita, di cosa ci tiene in vita.
Giuseppe negli anni ’50-’60 sente che il suo lavoro, il lavoro in generale ha bisogno di un senso, e che, in qualche modo anche il lavoro deve rispondere ai veri bisogni dell’uomo, altrimenti a che serve? Giuseppe intuisce che oggi non è più sufficiente la presenza di un’opera “eccezionale” nel nostro ambiente ma che l’ambiente stesso è la creazione alla quale partecipiamo, volenti o nolenti, è la creazione alla quale siamo chiamati.
È l’ambiente che noi andiamo pensando, costruendo e vivendo che può fare la differenza nella nostra vita e in quella delle generazioni a venire, che aiuterà a dare una impostazione anche al nostro modo di relazionarci con l’intorno e con gli altri.
La nostra creatività è volta alla creazione dell’ambiente, sia fisico, che culturale e sociale, sia emotivo che spirituale, noi creiamo il mondo nel quale viviamo, lo connotiamo con le nostre intenzioni più profonde e gli diamo forma. Giuseppe, ai suoi tempi, intuì tutto questo ed iniziò a lavorare sul legno cercando la coerenza in questo rapporto che aveva quotidianamente con la materia.
Il legno è una materia prima straordinaria che ha dato all’uomo la possibilità di sopravvivere, accompagnandolo fin dalla notte dei tempi: grande disponibilità e versatilità, leggerezza, capacità isolante, profumo e colore.
Questa materia ha una sua fisiologia e rispettarla significa rispettare le leggi della natura, restare in dialogo con una materia prima così umile e semplice quale è il legno, significa restare all’interno di un dialogo con la nostra madre terra, è come soppesare le parole che scambiamo con l’amico o l’amica, è un gesto concreto di tutela della nostra relazione.
Il legno è connessione con la natura, con il creato: accettarne anche i limiti può essere una garanzia di rispetto per il nostro habitat.
La coerenza e il rispetto della materia prima significa proprio approcciarsi all’ideazione di nuove forme e strutture accettando i condizionamenti reciproci derivanti dalla materia scelta: la struttura per esempio condizionerà la forma, ne costituirà l’essenza, la forma, quindi deriverà anche da questi condizionamenti, cioè da una relazione forte con le esigenze-possibilità della materia, da un “ascolto” delle relazioni in gioco, il che è molto più difficile rispetto alla semplice imposizione di una forma fotogenica, ma è anche più vero. Solo così otterremo vera bellezza e non arbitraria arroganza.
Oggi tutto sembra destabilizzarsi, tutto sembra accelerare e frantumarsi, abbiamo l’urgenza di comprendere di cosa abbiamo realmente bisogno e per questo vorrei chiudere con una immagine provocatoria: come vi immaginate il vostro futuro? come nomadi o come profughi?
Il nomade ha una sua cultura viva e forte, ha saldi riferimenti negli ambienti che attraversa, sa dove sta andando e su quali risorse, seppur provvidenziali, può contare, si sposta ma ha relazioni fortissime con gli altri e con l’ambiente.
Il profugo invece ha perso tutto, vive nella precarietà più estrema, non ha più riferimenti, spesso ha dovuto lasciare la sua terra e le sue relazioni, il profugo lotta con la sua disperazione perché “cacciato” dalla sua terra.
A fronte di questo mondo in rivoluzione, in cui tutti i riferimenti del passato sembrano sgretolarsi, forse siamo chiamati a recuperare, scoprire, conquistare per la prima volta consapevolmente, uno spazio archetipo, cioè quella qualità dello spazio che prescinde la funzionalità spinta e la specializzazione, soprattutto in ambito abitativo, e che divenga quindi capace di accogliere il cambiamento continuo ma conservare una sua capacità di parlare al nostro essere umani.
Forse siamo chiamati a riscoprire una bellezza ed una soddisfazione profonda che deriva da un continuo riconoscere e coltivare la relazione con la vita, che stiamo sacrificando in nome della produttività, dell’efficienza e del denaro, di astrazioni che alla fine si riveleranno illusioni.